Restauro della Loggia di Amore e Psiche
La loggia aperta sul giardino, con gli affreschi raffiguranti la favola mitologica di Amore e Psiche, eseguita da Raffaello e la sua scuola, entro il 1518, era un tempo l’ingresso principale della villa che il banchiere senese Agostino Chigi si era fatto progettare e costruire da Baldassarre Peruzzi un decennio prima. Dobbiamo cercare di immaginare questo ingresso estremamente accattivante, soprattutto per la straordinaria invenzione di Raffaello, che volle raffigurare i brani scelti della favola, come se fossero davvero viventi e vicino a noi. Per suscitare questa sensazione nello spettatore ebbe l’idea di fingere che la loggia fosse un grande pergolato, straordinariamente dipinto da Giovanni da Udine, dal quale gli dei e Psiche fanno capolino. La bellissima fanciulla, che aveva suscitato le gelosie di Venere e che, solo dopo aver superato prove terribili, potrà bere la coppa dell’immortalità ed andare sposa al suo amato Cupido, rappresenta con ogni probabilità la futura sposa di Agostino Chigi, che dovette superare vari gradini sociali per diventare la moglie del famoso banchiere. Molte altre simbologie sono racchiuse in queste raffigurazioni, che sono tuttora oggetto di studio e di ipotesi.
Non sono molti i dati certi riguardanti questo dipinto murale. Non sappiamo ad esempio con certezza quali siano stati gli esecutori, o meglio i “trascrittori” delle idee di Raffaello: vi sono vari disegni autografi di Raffaello, altri a lui attribuiti con più o meno verosimiglianza. Ma oltre alla straordinaria idea del finto pergolato e dei due finti arazzi centrali, con la felice conclusione della favola, e cioè il Consiglio degli Dei, ed il Banchetto nuziale, possiamo ipotizzare che abbia materialmente eseguito solo pochissime figure. Gli studi di prossima pubblicazione, effettuati durante l’ultimo intervento di restauro, eseguito dall’lstituto Centrale del Restauro, potranno far luce anche su questo aspetto. Questa famosissima Loggia fu molto amata, molto visitata, e molto copiata da vari artisti: proprio a causa della sua fama, fu anche spesso restaurata.
Nel 1693 vi fu una fortunata coincidenza: l’abate Felini, rappresentante del Duca Ranuccio Farnese, l’uomo di lettere Giovan Pietro Bellori, difensore del restauro pittorico, ed il pittore-restauratore Carlo Maratti, progettarono, eseguirono e relazionarono sul primo restauro di dipinti esemplare, condotto con rispetto dell’opera d’arte e con materiali “reversibili”: lapis e pastello. Altri restauri seguirono, meno rispettosi, ma si accanirono fortunatamente solo sui fondi del cielo; le figure di Raffaello e dei suoi collaboratori rimasero quasi illese.
Il restauro progettato e condotto in questi anni dall’Istituto Centrale del Restauro, ha visto il formarsi di un’équipe che ha veramente lavorato in modo interdisciplinare: gli storici dell’arte, gli architetti, i restauratori, gli esperti scientifici, gli esecutori della documentazione fotografica e grafica, e tutte quelle figure professionali che ruotano intorno ad un cantiere di restauro tecnici e amministrativi.
Il punto di partenza è stato, come lo fu nel 1693, il controllo della situazione statica ed il monitoraggio delle antiche lesioni. Si era nel frattempo messo a punto il metodo di intervento della pulitura della pellicola pittorica, e delle altre operazioni ad essa connesse, dell’intervento sulle 850 grappe inserite dal Maratti per ristabilire l’adesione tra l’intonaco e la muratura, la maggior parte delle quali tuttora funzionali, del riempimento delle grandi lesioni, e della reintegrazione pittorica, coniugando i materiali tradizionali testati dall’ICR con la sperimentazione di nuove ipotesi e materiali (ad esempio per le grandi lesioni), che per questa particolare problematica si è preferito non applicare.
Infine la reintegrazione pittorica ha voluto tener conto delle traversie subìte da questi dipinti murali: non cancellarne dunque la storia, ma rendere il manufatto comunque godibile nell’immediato dal punto di vista estetico ed equilibrare il rapporto cromatico tra le figure, i festoni ed il fondo, anche se irrimediabilmente compromesso dopo l’asportazione degli azzurri del 1930 quando, nella convinzione di rimuovere il celeste di Maratti si rimosse anche l’azzurro, oramai incupito, di Raffaello.