Venere è venuta a conoscenza che suo figlio ha portato sull’Olimpo nel suo Palazzo Reale la donna mortale, e quindi non di pari rango, Psiche. Come protettrice dei matrimoni legittimi, reagisce indignata alle parole rassicuranti dell’energica Giunone e della più mite Cerere, che per paura delle frecce di Eros le rifiutano il proprio aiuto. Prima d’andarsene Venere si volge un’ultima volta verso Giunone che le parla con gesto retorico e appassionato. Nell’affresco Venere volta indignata le spalle, ha già mosso la gamba sinistra in avanti ed alzato la destra per allontanarsi, ma si volge brevemente verso Giunone la quale con la bocca semiaperta e il labbro superiore piegato con brutalità sembra ancora intenta a persuadere Venere. La mite Cerere osserva sconcertata la rabbia di Venere e cerca di calmare Giunone con la mano alzata. È in piedi e porta un abito giallo oro, il capo è cinto dalla corona di spighe della natura fertile e da un drappo di un verde simile a quello di Giunone. Nella loro bellezza sia Venere che Cerere sono opera dello stesso Raffaello mentre Giunone è opera di Giulio Romano. L’incontro di Venere con Cerere e Giunone viene raccontata da Apuleio nella Favola di Amore e Psiche de «L’Asino d’oro» nel cap. V, 31: … Tunc illae, non ignarae quae gesta sunt, palpare Veneris iram saevientem sic adortae: «Quid tale, domina, deliquit tuus filius, ut animo pervicaci voluptates illius impugnes, et quam ille diligit tu quoque perdere gestias? Quod autem, oramus, isti crimen, si puellae lepidae libenter adrisit? An ignoras eum masculum et iuvenem esse vel certe iam quot sit annorum oblita es? An, quod aetatem portat bellule, puer tibi semper videtur? Mater autem tu et praeterea cordata mulier, filii tui lusus semper explorabis curiose, et in eo luxuriem culpabis et amores revinces, et tuas artes tuasque delicias in formoso filio reprehendes? Quis autem te deum, quis hominum patietur passim cupidines populis disseminantem, cum tuae domus amores amare coerceas et vitiorum muliebrium publicam praecludas officinam?» Sic illae, metu sagittarum, patrocinio gratioso Cupidini, quamvis absenti, blandiebantur. Sed Venus, indignata ridicule tractari suas iniuras, praeversis illis, alterorsus concito gradu pelago viam capessit.
Allora le dee, ben sapendo quello che era accaduto, tentarono di placare l’ira di Venere prendendola con le buone: «Ma che cosa ha fatto di male tuo figlio, perché tu debba ostacolarne così tenacemente i piaceri e pensare solo a mandare in rovina la donna che lui ama? Che delitto è mai questo, di far la corte ad una graziosa ragazza? Ti sei dimenticata quanti anni ha? Eppure lo sai che è maschio e che è giovane! Oppure, visto che non dimostra la sua età, credi sempre che sia un ragazzino? Tu poi, che sei madre e donna oramai assennata, stai lì a curiosare le scappatelle del tuo ragazzo, e non fai altro che condannarne le passioni e gli amori! Non è forse tuo figlio? E non ti accorgi di biasimare in lui, che è anche tanto bello, le tue stesse abitudini, i tuoi stessi piaceri? Qual dio, quale uomo potrà trovare giusto che tu diffonda ovunque nel mondo a passione dell’amore, e che poi a casa tua tu impedisca con asprezza ogni amore, e chiuda la pubblica scuola dei vizi delle donne?». Così le due dee, per timore degli strali di Cupido, cercavano di ingraziarselo benchè non fosse presente, patrocinandone la causa. Ma Venere, indignata perché le offese di cui si lamentava venivano prese poco sul serio, voltò ad esse le spalle e a passi concitati prese la via del mare.
Mito di Cerere
Antichissima divinità italica della vegetazione e dei campi coltivati. Cerere fu venerata a Roma come in altre città del Lazio e dell’Italia centrale. Fu identificata con la greca Demetra. Ė di solito raffigurata con il capo cinto da una corona di spighe mentre tiene tra le mani una cornuco pia. Giove tradì la moglie Giunone con Cerere e della loro unione nacque la figlia Proserpina che venne rapita da Plutone e trascinata agli Inferi. Cerere disperata andò in cerca della figlia con una torcia che spesso è raffigurata in mano della Dea; quando venne a sapere del rapimento infuriata rese aride tutte le terre ed allora ottenne di poter ricevere la figlia per quattro mesi l’anno: sono le belle stagioni, nelle quali la natura è florida e produce i suoi frutti.
Mito del Ratto di Europa
Le prime tracce scritte del mito di Europa risalgono ai tempi di Omero ed Esiodo, intorno all’VIII secolo a.C. Il mito narra della principessa Europa, figlia del re dei Fenici (il cui regno si estendeva sul territorio dell’attuale Libano e comprendeva le fiorenti città di Tiro e Sidone), che scesa al mare con le ancelle incontrò sulla spiaggia un toro bianco di grande bellezza e mitezza, tanto da indurla a cavalcarlo. Ma il toro si lanciò attraverso il mare trasportando la fanciulla fino all’isola di Creta, dove assunse le sembianze di Zeus e con lei generò tre figli, tra i quali Minosse, re di Creta, e Radamanto, giudice degli Inferi. Il mito continua col racconto sui fratelli di Europa, che partirono in varie direzioni per cercare la sorella: tra questi Cadmo che giunse nella Grecia continentale e qui fondò Tebe; a lui è attribuita la trasmissione dell’alfabeto dalla Fenicia alla Grecia. In generale il mito rappresenta un movimento di civiltà da Oriente a Occidente e il nome Europa, dato ai territori occidentali, riflette questo spostamento.